Dai centri storici trasformati in parchi tematici alla perdita dei negozi di prossimità, il fenomeno che ridisegna Napoli, Roma, Firenze e Torino. Ecco come i consumatori possono reagire.
La parola è nata a Brooklyn nel 2010 e oggi è entrata a pieno titolo nel dibattito europeo. Foodification significa trasformare intere aree urbane in spazi quasi esclusivamente dedicati al consumo di cibo. Non si parla di valorizzazione delle tradizioni culinarie, ma di una loro messa in scena, spesso pensata per i turisti e per i social network.
Ne ha scritto di recente Politico EU, la versione europea della rivista statunitense di informazione politica ed economica, definendo Napoli una città “morta per colpa dell’overtourism”, ridotta a centro commerciale a cielo aperto.
A Napoli basta una passeggiata in via dei Tribunali per capire cosa significhi foodification. Botteghe storiche chiuse, friggitorie e wine bar fotocopia, code di turisti per una pizza consumata in piedi, rituali inventati come accarezzare il naso di Pulcinella per scattare una foto virale. È un modello che produce fatturato ma svuota di autenticità il tessuto urbano, innalzando gli affitti e spingendo fuori i residenti. Il rischio è evidente: città intere trasformate in palcoscenici gastronomici dove si consuma rapidamente e si ricorda poco.
Roma non è immune. Il Giubileo 2025 ha accentuato l’arrivo di visitatori e l’offerta di ristorazione si è adattata in modo sempre più standardizzato, privilegiando format veloci e facilmente riconoscibili dal pubblico internazionale. In parallelo cresce la pressione degli affitti brevi che tolgono spazio a chi abita stabilmente nei quartieri storici. La capitale, già da anni al centro di analisi accademiche sulla foodification del Ghetto ebraico, mostra come anche il cibo possa diventare un elemento di gentrificazione.
Firenze ha scelto politiche più aggressive. Nel centro UNESCO è vietata l’apertura di nuove attività alimentari per proteggere l’identità del tessuto urbano. Dal 2025 scatterà anche il divieto per risciò e golf-cart, a dimostrazione di come la città voglia ridurre la pressione dei flussi turistici e preservare le funzioni residenziali. Torino rappresenta invece un laboratorio di studio: il mercato di Porta Palazzo è stato analizzato dagli urbanisti come esempio di retail gentrification. L’ingresso di nuovi format gastronomici ha cambiato l’offerta, attirando un pubblico diverso ma ridisegnando i rapporti sociali.
Il consumatore non è spettatore passivo. Può scegliere di sostenere chi preserva la vera identità dei luoghi, acquistando da botteghe storiche e piccoli produttori, preferendo locali con filiera trasparente e non semplici repliche del fast food internazionale travestito da cucina tipica. Può controllare che i prezzi siano adeguati e che le strutture siano regolari, evitando di alimentare il mercato nero degli affitti e delle licenze improvvisate. Anche un comportamento consapevole nei viaggi, come alternare tappe iconiche a esperienze autentiche nei quartieri meno turistici, contribuisce a riequilibrare il sistema.
Il fenomeno della foodification non è una moda passeggera. È un processo che incide sul modo in cui viviamo e consumiamo nelle nostre città. La sfida è trovare un equilibrio tra attrattività turistica e qualità della vita, tra economia e cultura, tra la velocità del consumo e la lentezza delle tradizioni. Sta ai cittadini e ai consumatori orientare la scelta verso pratiche che non riducano il cibo a semplice spettacolo, ma lo restituiscano al suo valore originario di identità e comunità.