Estate 2025: la sfida delle famiglie italiane tra centri estivi, costi e un welfare mancato
L’estate è arrivata. Le scuole chiudono, i bambini esultano… e le famiglie italiane entrano in modalità “sopravvivenza”. Non per il caldo, ma per l’ennesimo stress test economico, organizzativo e mentale che si ripete ogni anno, puntuale come una tassa non detraibile.
A pagare il prezzo più alto? Ancora una volta, le donne. Ma con una novità che ormai non è più rara: anche molti padri stanno facendo i conti con un’estate senza tregua, soprattutto quelli che lavorano in autonomia e che, con la scusa della flessibilità, si ritrovano a incastrare le scadenze professionali tra una merenda e un parco giochi.
Mamme e papà, tra flessibilità e rinunce. In Italia, il welfare familiare si regge da decenni sulle spalle delle donne, che continuano a pagare con pezzi di carriera, sogni nel cassetto mai aperti e un carico mentale infinito.
Solo il 55% delle madri lavora (facendo una media nazionale), contro il circa 70% delle donne europee, in particolari francesi o tedesche, spesso con contratti part-time o soluzioni “concilianti”, ma che conciliano poco e frustrano molto.
Ma non sono sole. Oggi, in questa faticosa gestione estiva, troviamo anche i padri autonomi, freelance, artigiani, liberi professionisti, che in estate diventano animatori, cuochi, babysitter e vigilanti. Non perché “aiutano”, ma perché condividono, in un equilibrio ancora tutto da costruire, soprattutto senza un vero welfare che li supporti.
Il mito della flessibilità, per chi è autonomo, è spesso solo questo: un mito. Chi lavora in proprio non ha ferie pagate, non ha permessi, e spesso lavora di notte per riuscire a far tutto. Alla fine? Lavorano il doppio, incassano la metà e resistono solo grazie a una dose extra di amore e caffeina.
13 settimane di vuoto: la scuola chiude, i problemi iniziano. Nel frattempo, la scuola italiana resta ferma su un calendario figlio degli anni Sessanta: tredici settimane estive di chiusura, le più lunghe d’Europa. All’epoca c’erano i nonni in campagna e le madri a casa. Oggi le famiglie sono cambiate, ma il sistema no.
E così, alla fine delle lezioni, parte il conto alla rovescia: come coprire tre mesi di vuoto scolastico? Per la maggior parte dei genitori che lavorano, la risposta è una sola: centri estivi. Ma anche qui, i numeri parlano chiaro: non sono una soluzione per tutti.
In una struttura privata si possono spendere a figlio circa 700 euro al mese. Nei centri estivi pubblici la cifra scende a circa 400 euro.
Il prezzo a tempo pieno rilevato nel 2025 nei centri estivi proposti in strutture private è:
Centro estivo privato (mezza giornata):
Il prezzo rilevato nel 2025 nei centri estivi proposti in strutture pubbliche è
Anche se ancora poco pubblicizzati, diversi comuni sono scesi in campo offrendo centri estivi accessibili. Nel Sud, grazie ai fondi PNRR stanziati per contrastare la dispersione, si contano decine di iniziative (fino a 4.500 scuole aperte nella scorsa estate)
Per accedere ai centri estivi pubblici è necessario consultare il sito web del comune residenza e cercare le informazioni relative ai centri estivi, alle modalità di iscrizione e alle eventuali agevolazioni disponibili. Alcuni comuni o enti potrebbero pubblicare bandi o linee guida specifiche per l’accesso ai centri estivi, con informazioni dettagliate sulle modalità di iscrizione, i requisiti, i documenti da presentare e le eventuali agevolazioni, come ad esempio un determinato reddito familiare (attestazione ISEE).
Tuttavia la disomogeneità territoriale tra un Comune e l’altro resta un problema: non tutti possono contare su bandi facili da trovare o con copertura economica sufficiente.
Tendenze rispetto al 2024 (fonte ISTAT)
Dal 2019 a oggi
In molti Paesi dell’Europa settentrionale, la scuola estiva è l’eccezione: le vacanze sono intercalate durante l’anno (ponti, mini-stages) e i centri estivi pubblici o convenzionati costano poco o sono gratuiti. In Scandinavia, ad esempio, le ferie dei genitori sono distribuite su tutto l’anno e l’orario scolastico è più flessibile. Spesso le famiglie italiane guardano con invidia a modelli in cui le vacanze non gravano sulla capacità di lavoro e dove la scuola non diventa quarto lavoro per i genitori.
Il welfare (non dichiarato) è femminile. Chiamarlo “welfare” è forse ingeneroso. Perché non è strutturale, non è equo, non è scelto: è semplicemente lasciato sulle spalle delle donne. Il loro tempo, le loro energie, il loro lavoro invisibile – e non pagato – sono ciò che tiene in piedi l’estate delle famiglie italiane.
Ma è ora di smettere di chiamarlo “scelta”. È una necessità, spesso una forzatura. Perché in un paese dove mancano politiche per l’infanzia, le madri diventano lo stato sociale. E i padri, quando provano a condividere, si scontrano con un mondo del lavoro che non è pronto ad accettarli in un ruolo genitoriale pieno.
Cosa possiamo fare (finché non cambia il sistema)? Sognare una riforma scolastica con un calendario più moderno è giusto (e necessario). Ma nel frattempo, come si sopravvive all’estate?
L’estate dovrebbe essere un momento di gioia e libertà, per i bambini e per i genitori. Ma finché il sistema continuerà a ignorare le esigenze delle famiglie moderne, si trasformerà – ogni anno – in una corsa a ostacoli dove chi perde è chi non ha reti, risorse e tempo.
Serve una riforma. Serve una visione. Serve un welfare reale, non fatto di rinunce private. Nel frattempo, armiamoci di pazienza, strategie e solidarietà. Perché crescere un bambino d’estate è, ancora una volta, un lavoro di squadra. E quello che non fa lo Stato, lo fanno – ogni giorno – le famiglie italiane.