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Diffamazione on line, ecco tutti i rischi che correte

Il nostro caro consumatore dei servizi del web, per tutelarsi, deve invece conoscere quali siano i limiti del proprio “agire” virtuale, proprio come accade nella vita reale.

Nel periodo del lockdown siamo stati tutti di più sui social, oltre che sulle piattaforme di messaggistica istantanea, perchè era uno dei modi più veloci e semplici per “restare in contatto” con i nostri cari, gli amici, il “mondo intero”, lo abbiamo fatto anche per noia o perché avevamo il tempo di imparare ad usare e conoscere Internet. Non a caso, al mese di Gennaio 2021, più di 50 milioni di italiani risultano attivi su Internet e 41 milioni sui social. Secondo gli ultimi dati AGCOM, inoltre, 1 italiano su 2 utilizza Facebook, e vi trascorre circa un’ora al giorno.

Ancora oggi, però, nonostante siamo in pieno processo di trasformazione digitale e nelle scuole, in particolare, ci sia particolare attenzione verso i rischi di Internet, anche in termini di sicurezza dei nostri dati personali, continua ad essere diffusa l’idea che il web ed in particolare i social siano una zona “franca”, dove è sempre lecito dire o fare quello che si vuole, senza che possano esserci particolari conseguenze, soprattutto legali.

Il nostro caro consumatore dei servizi del web, per tutelarsi, deve invece conoscere quali siano i limiti del proprio “agire” virtuale, proprio come accade nella vita reale.

Avvocato, quale è il reato sui social che più di altri gli utenti, loro malgrado, rischiano di commettere quando pubblicano un post o commentano quello di altri utenti?

Oltre alla violazione della privacy, del copyright, della corrispondenza, l’istigazione a delinquere, per citarne solo alcuni, vi è senza dubbio la diffamazione nella sua forma aggravata. Innanzitutto, ciò che fa scattare questo reato è l’offesa della reputazione di una persona che viene commessa comunicando con più persone. L’offesa viene espressa “in assenza” della persona “bersaglio”, che quindi non ha la possibilità di replicare immediatamente. Offendere la reputazione altrui significa ledere la sua immagine, le sue qualità morali, professionali, sociali, la sua cd. dignità sociale. Come? Attraverso espressioni offensive, cioè volgari o comunque tali da sminuirla o farla apparire in maniera degradante, o ancora, pubblicando una foto imbarazzante che la ritrae (può trattarsi anche di una foto di per sé innocua, ma che viene modificata in modo tale da denigrare quella stessa persona), ad es. facendola apparire nuda o in pose sconvenienti) oppure facendo circolare una fake news, ad es. di un presunto scandalo o vicenda giudiziaria nella quale sarebbe stata coinvolta quella persona. Insomma, le modalità possono essere diverse. Ovviamente, nella valutazione del carattere diffamatorio di un’espressione occorre valutare diversi elementi, quali il contesto, la gravità delle parole utilizzate. Nel caso in cui tali offese siano pubblicate sul web, sulle piattaforme di messaggistica istantanea (pensiamo a WhatsApp) ed, in particolare, sui social network, il più delle volte attraverso i ns. cari e famosi post o i commenti ai post altrui, la giurisprudenza uniforme ha affermato che si è in presenza di una circostanza cd. aggravante, cioè un’ipotesi in presenza della quale scatta un aumento della pena prevista e questo proprio perché l’offesa, nel caso dei social ed in generale del web,  è capace di raggiungere un numero indeterminato di persone, come nel caso della stampa o di qualsiasi altro mezzo di pubblicità. Non a caso, la competenza a decidere non sarà più del Giudice di Pace penale, come nell’ipotesi di minor gravità, ma del Tribunale penale monocratico.

Avvocato, ma anche un semplice like può costarci caro?

Molto spesso vengono espressi like in calce ad un post o ad un commento diffamatorio di un post che, invece non lo è, o che è altrettanto diffamatorio. La questione è: tanto basta per farmi ritenere concorrente nel reato di diffamazione commesso dall’autore del contenuto offensivo e quindi, penalmente perseguibile? Ad oggi, in Italia non abbiamo una sentenza di condanna confermata in via definitiva dalla Cassazione per questo tipo di condotta, ma diverse inchieste: nel 2017, ad esempio, 7 persone sono state indagate per concorso in diffamazione aggravata perché avevano messo un like ad un post che accusava il sindaco e alcuni dipendenti comunali di essere “fannulloni ed assenteisti”, nel 2018, ad essere indagati alcuni soggetti per il like ad un post di tenore razzista nei confronti dell’etnia rom, sempre nel 2018 è stata la volta di 7 agenti di polizia penitenziaria hanno messo sotto ad un post di un sindacalista che nel 2014 denunciava le condizioni di un carcere. A differenza della condivisione di un contenuto diffamatorio di altri sul nostro profilo o pagina facebook, gesto che oggettivamente esprime la volontà di continuare a propagare, a diffondere quel contenuto offensivo, esprimere un like, comunque, non può ritenersi un gesto che inequivocabilmente significa “la penso come te, ciò che hai scritto e soprattutto il modo in cui lo hai scritto trova il mio sostegno”, anche perché può essere stato espresso accidentalmente con lo scroll compulsivo. Insomma, qui il punto è la difficoltà di verificare se sussista la volontà di offendere, perché un reato per essere contestato richiede anche e soprattutto il cd. dolo, che è appunto, nel nostro caso, la consapevolezza che si sta ledendo l’altrui reputazione in un determinato modo. Al netto di ciò, bisogna evitare simili comportamenti ed essere meno frettolosi, sbadati o superficiali, quindi prima di mettere un like, leggiamo bene di cosa si tratta. Diverso è il caso dell’istigazione a delinquere. Nel gennaio 2021, la Corte di Cassazione ha confermato la condanna di  un uomo per il reato di apologia di terrorismo, perché aveva espresso numerosi like e condiviso su Facebook link a materiale jihadista di propaganda. Per i giudici i like e le condivisioni su Facebook di quei contenuti ne hanno aumentato la diffusione e quindi il rischio di emulazione, cioè il rischio che altri potessero commettere crimini analoghi a quelli esaltati.

Si rischia grosso anche sulle piattaforme di messaggistica, come whatsapp?

Oltre ai casi in cui l’offesa è espressa all’interno di un gruppo whatsapp, la Cassazione, in una sentenza depositata a fine settembre di quest’anno (la n. 33219) ha stabilito che pubblicare contenuti offensivi sul proprio “stato” è diffamazione perché, in quel caso, il contenuto è visibile a molte persone, cioè a tutti i contatti presenti in rubrica che ovviamente utilizzano, a loro volta, WhatsApp. Nel caso in questione, un uomo aveva pubblicato una frase offensiva rivolta a una donna, presente tra i contatti e dunque destinataria, tra gli altri, del messaggio, sul proprio stato WhatsApp. L’applicazione di messaggistica in questione permette di escludere la visione dello “stato” a tutti o ad alcuni dei contatti, quindi nel momento in cui io pubblico un contenuto denigratorio sul mio stato e non pongo alcun tipo di filtro, rischio una denuncia per diffamazione. Ricordiamo che ai fini dell’integrazione di questo reato, non è necessario poi che la vittima sia indicata nominativamente:  è sufficiente che un numero di persone tra quelle alle quali il messaggio diffamatorio è diretto capiscano comunque che si tratta chiaramente di una persona precisa, indicando particolari che possono renderla identificabile. Ad es. citando la professione che svolge, la città in cui vive, ed altri elementi da cui è agevole capire che si tratti di una data persona.

In quali casi, invece, si può escludere la diffamazione?

Partiamo da una precisazione importante. Reputazione, onore, decoro personale sono valori che esprimono il diritto alla cd. integrità morale di una persona, Questo diritto appartiene alla schiera dei diritti della personalità (tra i quali la privacy, l’immagine etc.) e in quanto tale, esso è riconosciuto e protetto dalla nostra Costituzione, all’art. 2. Ma ci sono dei casi in cui questo diritto si trova a dover fare i conti, se così possiamo dire, con altri diritti costituzionali, i quali, in determinati casi hanno la “precedenza”. Tra questi, il diritto alla libera manifestazione del proprio pensiero, tutelato dall’art. 21 della Costituzione. La linea che separa una semplice opinione personale o una critica, anche molto sferzante e “spinta”, da una condotta diffamatoria è in molti casi davvero sottile (quindi attenzione alle denunce a cuor leggero, che possono costarci caro). In linea generale, possiamo dire che utilizzare insulti, epiteti  offensivi, attaccare in maniera verbalmente aggressiva e denigratoria la persona in quanto tale, esula di certo dall’ombrello costituzionale dell’art. 21. Negli altri casi, si esercita un diritto costituzionalmente riconosciuto: si parla, infatti, di cause di “giustificazione”, cioè che escludono la punibilità e ciò in base all’art. 51 del codice penale. Oltre al diritto di critica, vi è il diritto di cronaca giudiziaria, il diritto di difesa, tutelato dall’art. 24 della Cost., e la provocazione. In quest’ultimo caso l’offesa è commessa in uno stato d’ira che è provocato da un fatto ingiusto compiuto proprio dalla persona che vado a diffamare, ma la reazione, attenzione, deve essere immediata. Ad esempio, recentemente la Cassazione ha confermato la condanna per diffamazione di un’ex moglie che aveva diffamato su Facebook l’ex marito e l’amante di lui. La donna aveva invocato l’esimente della provocazione, rappresentata appunto dalla relazione extra-coniugale, ma i Giudici sono stati di tutt’altro avviso. Perché? Perché il post diffamatorio era stato pubblicato quando la relazione del marito era terminata e quindi si trattava di odio, rancore, vendetta, uno sfogo di rabbia.

Andiamo subito al concreto: se io scopro di essere diffamato via social cosa devo fare tecnicamente?

Innanzitutto, preoccuparmi di “salvare” il contenuto perché potrebbe essere cancellato o comunque alterato, quindi devo assicurarmi che la prova sia integra. Nell’immediatezza posso utilizzare dei software gratuiti. Lo stesso vale per identificare il profilo, pagina o gruppo Facebook in questione. É fondamentale comunque farci aiutare da un tecnico-informatico per evitare errori. Dopo di che ho due strade davanti a me. Partiamo dalla prima: sporgo denuncia-querela, allegando tutto ciò che può essere utile ai fini delle indagini del P.M., indicando anche testimoni e documentazione a supporto, quindi non solo il contenuto pubblicato sul social, ma anche possibilmente evidenze da cui emergano i danni che ho subito (certificati medici per procurato stato d’ansia o altro, incarichi persi, candidature rifiutate).  La querela va sporta entro 3 mesi dalla pubblicazione del contenuto o comunque da quando io ne vengo a conoscenza. Se si avvierà un procedimento penale, posso decidere di costituirmi parte civile tramite il mio difensore e chiedere il risarcimento dei danni, morali e materiali in quella sede. Oppure posso attendere la sentenza di condanna e agire poi in sede civile per ottenere il ristoro dei danni in questione. Attenzione, però, perché l’imputato può essere assolto ed in questo caso potrò comunque continuare ad agire per il risarcimento del danno, ma il giudizio civile deve esser stato avviato prima della sentenza penale di primo grado.

La seconda strada è evitare la denuncia querela e rivolgermi direttamente al giudice civile esercitando l’azione di risarcimento del danno da fatto illecito. Prima di intraprendere il giudizio per il risarcimento, è possibile avviare un procedimento di urgenza ex art. 700 c.p.c. volto ad ottenere la cancellazione del contenuto diffamatorio, per bloccarne l’ulteriore diffusione e quindi i danni.

Avvocato Di Stefano, che tipo di risarcimento posso ottenere se sono stato diffamato su Facebook o comunque su un social?

La giurisprudenza ha affermato in più occasioni che la lesione della reputazione arrecata attraverso un mezzo di comunicazione così capillare come è il social network, in particolare Facebook, può procurare alla persona offesa una sofferenza morale che va risarcita. Nella quantificazione di questo danno morale si considerano diversi elementi: ad es. la tipologia del post, se pubblico o privato, la gravità lesiva delle parole utilizzate o comunque del contenuto, il tempo di permanenza di quest’ultimo, la sua condivisione, i like,  il contesto, l’indicazione nominativa del destinatario, il suo profilo professionale. Inoltre, si potrà tener conto dell’eventuale documentazione medica su eventuali disagi psicologici che la persona abbia sofferto in conseguenza dell’offesa subita. Alla somma che il Giudice riconosce, si aggiunge poi la rivalutazione monetaria e gli interessi dalla pubblicazione del contenuto al saldo. Quindi stiamo parlando di cifre che possono diventare davvero consistenti. Inoltre, può essere risarcito anche il danno patrimoniale, qualora la persona diffamata dimostri, attraverso documenti o indicando testimoni, che a causa delle offese di cui è stata vittima abbia subito una riduzione delle proprie entrate economiche, la perdita di incarichi o proposte professionali. Teniamo presente che nel caso di procedimento penale, la parte offesa costituitasi parte civile può chiedere, oltre alla condanna generica al risarcimento del danno, che viene liquidato in sede civile, la cd. provvisionale, cioè chiedere che il Giudice penale condanni l’imputato a pagare una somma che egli sarà tenuto a corrispondere alla vittima dell’offesa che la richieda, subito dopo il deposito della sentenza di primo grado.

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Dalle bollette al conto corrente, dai mutui alle carte di pagamento, dall’identità digitale alle truffe on line. Radio24 e Consumerismo vi aiutano a chiarire i dubbi e ad affrontare i problemi pratici della vita quotidiana. I nostri esperti rispondono alle vostre domande nei podcast de "Il Radioconsumatore": un programma di Debora Rosciani.

Piera Di Stefano

Responsabile Dipartimento Diritto Digitale di Consumerismo no profit. Appassionata dei temi giuridici più innovativi, si occupa di web reputation, crimini informatici e privacy. Con l’avv. Michele Di Somma ha creato nel 2012 T.R.ON, un servizio legale di tutela della reputazione online, e nel 2017 Avvocato del Web, una Rete di professioni e competenze che offre soluzioni legali, informatiche e di web communication alle problematiche di cittadini e aziende legate all’uso del web e, in generale, delle nuove tecnologie. È autrice di contributi e testi sul diritto digitale.
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