Agcom e la lista del ridicolo: quando la censura diventa un tutorial per hacker dilettanti
Il caso della “blacklist” con metadati e link cliccabili rivela il vero fallimento delle istituzioni italiane: non la tecnologia, ma la mancanza di educazione digitale.
L’Agcom voleva dare un segnale forte, un’azione di tutela dei minori contro i contenuti per adulti sul mandato del decreto Caivano.
Il risultato, invece, è stato un boomerang digitale che ha scatenato ironia e indignazione in rete, trasformando un provvedimento ufficiale in un caso da manuale di incompetenza tecnologica.
La pubblicazione della prima lista dei siti soggetti all’obbligo di age verification, prevista dall’articolo 13-bis del cosiddetto “decreto Caivano”, non solo non ha raggiunto l’obiettivo, ma ha esposto l’autorità a una figuraccia senza precedenti.
Certo dopo il registro per le opposizioni e il filtro anti spoofing c’era da aspettarselo.
La prima versione del documento pdf, diffusa tra il 31 ottobre e il 1° novembre, conteneva nei metadati il nome dell’estensore, Francesco XXX(sic.), rendendo immediatamente riconoscibile l’autore del file. Un errore che, in ambito istituzionale, equivale a dimenticare il proprio tesserino su una scena del crimine.
Poi, nel tentativo di rimediare, è arrivata la seconda versione della lista. Ma invece di correggere la gaffe, ne ha introdotta un’altra ancora più grave: i link ai siti vietati sono rimasti cliccabili e funzionanti, trasformando un elenco di divieti in una comoda mappa digitale dei contenuti che si intendeva oscurare.
Dietro la comicità involontaria di questa vicenda si nasconde un problema serio. Le istituzioni italiane continuano a cercare scorciatoie tecniche per risolvere questioni culturali e sociali, senza comprendere che il nodo centrale è educativo. Bloccare l’accesso a un sito non sostituisce un percorso di alfabetizzazione digitale né un’educazione alla sessualità consapevole. In un Paese in cui, secondo i dati del ministero dell’istruzione, il 65% dei minori tra i 10 e i 16 anni naviga online senza alcun filtro genitoriale e il 47% dichiara di aver visto contenuti per adulti prima dei 14 anni, la strategia della censura è semplicemente inefficace e ridicola.
La tecnologia non è il problema, ma lo specchio delle nostre lacune. Serve un piano di educazione digitale serio, capace di coinvolgere scuole, famiglie e istituzioni, come avviene in altri Paesi europei dove l’alfabetizzazione informatica è parte integrante dei programmi scolastici sin dalle elementari. La tutela dei minori passa da una maggiore consapevolezza e da strumenti di controllo intelligenti, non da liste improvvisate che finiscono per amplificare ciò che dovrebbero nascondere.
Per i cittadini e i genitori, la lezione è chiara. È indispensabile installare filtri di navigazione efficaci, impostare controlli parentali su smartphone e computer e soprattutto dialogare con i ragazzi, spiegando rischi e responsabilità del web. Esistono strumenti gratuiti e facili da usare, come il parental control di Google, Apple o Microsoft, che permettono di monitorare le attività online e limitare i contenuti in base all’età.
Il caso Agcom è l’emblema di un’Italia che tenta di regolare internet con logiche del passato, ignorando che la vera protezione passa dall’educazione e dalla competenza. La sfida non è oscurare, ma comprendere. Non censurare, ma insegnare a scegliere. Quando la tecnologia mette a nudo l’impreparazione di chi dovrebbe guidarla, il danno non è solo d’immagine, ma culturale ed economico, perché un Paese che non investe nell’educazione digitale condanna le nuove generazioni a essere consumatori inconsapevoli e sicuramente pirata, e non cittadini digitali.
Al contempo dopo il caso del Garante Privacy ci conferma un sistema di autorità non indipendenti e competenti ma ignoranti e funzionali agli interessi di chi giocoforza riesce persino a scrivere i provvedimenti da adottare.