
Il 51° Stato degli Stati Uniti non si farà.
Non oggi, non domani. E probabilmente mai.
Ma che l’idea sia circolata con violenza elettorale, cavalcata dal solito Donald Trump, la dice lunga su come si stia riconfigurando l’asse geopolitico e simbolico del Nord America.
Il Canada, da sempre percepito come l’amico educato del colosso a stelle e strisce, ha scoperto i gomiti.
E li ha alzati.
L’uomo in grigio e la rivolta cortese
Mark Carney, ex governatore della Banca d’Inghilterra, uomo di finanza e diplomazia, ha fatto l’impensabile: vincere le elezioni federali canadesi guidando un Partito Liberale fino a pochi mesi fa dato per spacciato.
Una campagna elettorale forsennata, una retorica contenuta ma tagliente, e un avversario involontario: Trump stesso. È stato lui, con la sua minaccia surreale di voler annettere il Canada come “51° stato”, a fornire a Carney il nemico perfetto per coagulare i consensi.
Una lezione strategica quasi da manuale: quando l’avversario diventa caricaturale, diventa anche utile.
Trump come catalizzatore, non protagonista
Il paradosso è servito. È stata proprio l’ingerenza del presidente americano a restituire dignità e rilevanza politica ai Liberali canadesi, orfani di Trudeau e dati per dispersi.
Carney ha capito – da tecnico abituato ai numeri, non ai palchi – che l’unico modo per non soccombere alla violenza narrativa era una contro-narrazione composta ma solida: niente fuoco e fiamme, ma ghiaccio e costanza.
L’hockey canadese, sport di fratture e strategia, gli ha offerto il frame ideale.
“Elbows up”, gomiti alzati: non per attaccare, ma per proteggersi e rilanciare. Una metafora diventata slogan.
Non è solo politica. È architettura di sistema
Mark Carney non è un politico di razza. È un architetto di sistemi. Uno di quelli che comprendono che la leadership del XXI secolo non si costruisce sull’identità personale ma sulla credibilità istituzionale.
Harvard, Oxford, Goldman Sachs, la Banca Centrale Canadese, quella Inglese, poi l’ONU e il private equity. Un curriculum da technocrat, ma con una crescente consapevolezza strategica: la nuova sfida del mondo libero non è economica, ma narrativa.
E in un momento storico in cui la sovranità viene usata come manganello propagandistico, Carney ha rilanciato il concetto in modo maturo: non chiusura, ma dignità. Non isolazionismo, ma reciprocità.
La nuova Guerra Fredda non inizia a Mosca, ma a Ottawa
Questa elezione non è solo un passaggio interno alla politica canadese.
È la trincea più silenziosa di un nuovo conflitto ideologico che ha contorni post-globali: l’autonomia dei Paesi medi contro l’arroganza degli imperi identitari.
Il Canada è sempre stato il “Paese civile” per antonomasia. Quello che non alza la voce, che crede nel multilateralismo, che non si impone. Ma proprio questa postura – nel mondo attuale – è diventata un valore rivoluzionario.
Trump, con la sua retorica da bulldozer, ha offerto a Ottawa la possibilità di dimostrare che esiste un’altra via. E Carney, con il suo passo sobrio, ne ha tracciato il cammino.
E per chi guida un’azienda?
Questo scenario parla anche a noi.
In un mondo dove la narrazione aggressiva sembra avere il monopolio dell’attenzione, la risposta non dev’essere il silenzio, ma la fermezza.
Carney insegna che la credibilità si costruisce nel tempo, ma si afferma nei momenti di pressione.
Le aziende oggi sono chiamate a fare lo stesso:
- presidiare valori senza inseguire le mode,
- reagire senza cadere nel reattivo,
- proteggere il proprio perimetro, ma saper rilanciare.
Non è più il tempo del marketing rassicurante. È il tempo delle scelte chiare, della leadership che sa dire “no” quando serve e “ora” quando è il momento.
Come nel miglior hockey: testa alta, gomiti alzati, e visione lunga.