
I dati ISTAT confermano un paradosso che ormai attraversa l’economia italiana: cresce il lavoro, ma non cresce il futuro.
Nel 2025 l’occupazione complessiva è in aumento, trainata dagli over 50, mentre i giovani continuano a essere progressivamente esclusi dal mercato del lavoro.
Un segnale che non va letto solo in chiave occupazionale, ma sistemica: il Paese si sta muovendo, ma in direzione opposta alla propria rigenerazione.
Parallelamente, i consumi delle famiglie restano pressoché stabili — 270,9 miliardi di euro nel secondo trimestre 2025, contro i 269,3 miliardi dell’anno precedente — segno di una tenuta apparente, più difensiva che evolutiva.
L’Italia si muove in equilibrio, ma è un equilibrio statico: lavora, spende, produce, ma non rinnova se stessa.
L’economia che invecchia
L’incremento dell’occupazione tra gli over 50 è certamente un dato positivo sotto il profilo della resilienza sociale. Tuttavia, se la crescita occupazionale si concentra in una sola fascia anagrafica, mentre quella giovanile resta ferma o arretra, l’effetto netto è una società che invecchia nel lavoro e che progressivamente perde la capacità di proiettarsi nel domani. Il mercato del lavoro italiano si sta trasformando in una piramide rovesciata: sempre più esperienza, sempre meno prospettiva. Chi lavora, consolida; chi cerca di entrare, resta sospeso.
Dopo dieci anni dal Jobs Act, è evidente che la riforma del lavoro non ha prodotto una riforma del destino: la flessibilità è aumentata, ma non la direzione.
Stabilità senza visione
La stabilità dei consumi e la crescita occupazionale matura sono oggi la rappresentazione statistica di una stabilità senza visione.
Un Paese che si difende, ma non si orienta.
Che si adatta ai cambiamenti globali senza interpretarne il senso.
Sul piano geopolitico, l’Italia si colloca nel cuore di un’Europa che vive la stessa transizione: economie solide ma rallentate, società protette ma poco dinamiche, sistemi educativi disallineati rispetto alle nuove filiere industriali e digitali.
Eppure, nel tempo in cui la tecnologia ridisegna le mappe produttive e la sostenibilità riscrive le catene del valore, l’unica vera infrastruttura strategica è quella del capitale umano.
Non è una questione demografica, ma identitaria: stiamo perdendo non i giovani in senso numerico, ma i giovani come categoria di visione.
Il deficit invisibile: orientamento
Oggi il tasso di occupazione cresce dove esiste continuità, non dove servirebbe innovazione. Il risultato è una crescita che non rigenera, un mercato del lavoro che assorbe poco talento e restituisce ancora meno fiducia. Il vero deficit dell’Italia non è di produttività, ma di orientamento: non mancano le opportunità, mancano le mappe per raggiungerle.
Ogni anno migliaia di giovani entrano nel mercato del lavoro senza strumenti di lettura del proprio valore, privi di una visione di sistema che connetta formazione, impresa e identità.
Serve una nuova “politica industriale del talento” capace di:
- mappare le competenze reali e anticipare la domanda dei settori emergenti;
- collegare formazione, territori e filiere produttive in chiave europea;
- restituire direzione e appartenenza a una generazione che oggi vive più nel presente che nel possibile.
Il futuro come responsabilità collettiva
L’Italia non può permettersi di crescere solo in età anagrafica.
Ogni punto di occupazione in più, se non accompagnato da una visione generazionale, diventa un margine di tempo perso.
Non esiste ripresa economica senza successione di competenze, di sogni, di responsabilità. I dati dell’ISTAT ci dicono che l’Italia resiste.
Ma resistere non è guidare. E senza guida, anche la crescita diventa una forma elegante di declino. Invertire la rotta non significa solo creare posti di lavoro, ma dare direzione alle persone.
Solo un Paese che orienta i propri giovani può tornare a orientare anche se stesso.