
di Francesco Paolo d’Amico
Comitato Scientifico Consumerismo
La tecnologia semplifica la vita, ma può orientare decisioni e percezioni. Capire come funziona l’intelligenza artificiale quotidiana è il primo passo per tutelare libertà e consapevolezza digitale.
Digitalizzazione e diritti camminano sempre più insieme e non c’è giorno in cui non ci accorgiamo di quanto l’intelligenza artificiale incida sulle nostre scelte. Basta aprire un sito, cercare un prodotto, guardare un video per trovare davanti a noi qualcosa che sembra fatto apposta per catturare la nostra attenzione. È un meccanismo che conosciamo e che spesso ignoriamo, finché non capiamo che quelle proposte non arrivano per caso, ma sono il risultato di un sistema che osserva ciò che facciamo online e costruisce ipotesi su ciò che potremmo desiderare.
La tecnologia semplifica la vita, accelera i processi, alleggerisce le decisioni, ma porta con sé una serie di effetti che non sempre sono visibili a prima vista. Quando un algoritmo insiste nel mostrarci un certo tipo di contenuto, lo fa perché ha imparato a leggerci, ma non sempre in modo corretto. A volte continua a ripetere un interesse che non abbiamo più, altre volte si spinge a trarre conclusioni su di noi basandosi su informazioni parziali o su dati imperfetti. Il punto, oggi, non è temere la tecnologia, ma capire come funziona e quando può influenzare qualcosa che riguarda i nostri diritti.
L’arrivo del nuovo quadro normativo europeo, con l’AI Act, ha segnato un passaggio importante. Per la prima volta un regolamento riconosce in modo esplicito che l’IA non è un semplice strumento neutrale e che alcune applicazioni possono incidere profondamente sulla vita delle persone. Più un sistema ha la capacità di condizionare scelte, percorsi o opportunità, più deve essere trasparente, verificabile, controllabile. Anche in Italia la legge ha recepito questi principi e richiama con forza il ruolo del controllo umano, la necessità di spiegare come funzionano i processi automatizzati e il diritto dei cittadini a non essere giudicati da un meccanismo che rimane nascosto.
Questa evoluzione non riguarda solo i cittadini, ma anche le imprese, soprattutto le più piccole. Molte utilizzano strumenti digitali convinte che si tratti di semplici funzioni automatiche integrate nei software. Scoprono solo dopo, magari di fronte a un dubbio o a una richiesta di chiarimento, che quelle stesse funzioni rientrano nelle definizioni di IA previste dalla legge e comportano responsabilità precise. L’incertezza genera spesso due reazioni opposte, entrambe rischiose. Da una parte c’è chi attribuisce agli algoritmi un’autorità che non hanno, dall’altra chi preferisce evitare qualunque innovazione per paura di sbagliare. La regolazione, invece, serve proprio a evitare questi estremi e a rendere la tecnologia uno strumento utile e affidabile.
Il vero punto sensibile, oggi, è la consapevolezza. Capire quando un servizio utilizza l’IA, quali dati impiega, come li interpreta e quali margini di errore può avere, è il primo passo per mantenere il controllo. Saper riconoscere un contenuto filtrato da un algoritmo aiuta a non finire in bolle informative che distorcono la percezione della realtà. Conoscere il proprio diritto a chiedere chiarimenti, a ottenere spiegazioni, a far intervenire una persona quando qualcosa non torna, evita che le decisioni automatizzate diventino un meccanismo che agisce sulla nostra vita senza che ce ne accorgiamo.
La tecnologia non è un avversario e non è una soluzione magica. È una compagna quotidiana che può rendere tutto più semplice, purché sappiamo come dialogarci. La trasparenza permette di usarla nel modo giusto e di pretendere che rispetti i confini fissati dalla legge. La vera tutela nasce quando comprendiamo i processi che guidano ciò che vediamo, acquistiamo, leggiamo o scegliamo. La libertà digitale non si difende con la paura, ma con la conoscenza.